Danilo Sirigu e l’ipnosi clinica, l’ideale per curare le malattie e affrontare i trapianti

l responsabile del servizio di Ecografia sperimentale e dei trapianti dell’Arnas “Brotzu” di Cagliari ci parla di una tecnica sperimentale da lui introdotta

«La musica è una mia grande passione, per questo mi è sembrato naturale utilizzarla anche nella mia attività clinica. E sembra che stia producendo ottimi risultati». Danilo Sirigu, responsabile del servizio di Ecografia sperimentale e dei trapianti all’ospedale Brotzu di Cagliari, ci mostra la sua “creatura”: un mixer abbinato a cuffie e microfono con cui lui entra in relazione con il paziente, specialmente nel campo dell’ipnosi. Niente a che vedere con pendolini o altri stratagemmi che, secondo un certo immaginario collettivo, farebbero perdere il controllo di se stessi. È una tecnica di rilassamento associata all’esame diagnostico.

«È un procedimento che non fanno in tanti», spiega il dottor Sirigu. «L’ipnosi è la realizzazione di uno stato di coscienza modificato e fisiologico di una persona, che nasce da una fondamentale relazione di fiducia tra medico e paziente. Se ci sono questi presupposti, è possibile modificare lo stato mentale del paziente, diverso da uno stato di veglia normale. Si crea un’attenzione focalizzata: a differenza di quanto la gente normalmente crede, non ci si addormenta. Anzi, accade il contrario. Quando noi siamo focalizzati su una cosa, concentriamo tutte le nostre risorse su di essa. Tutto il resto esiste ma, in quel momento, non ci interessa. Capita a tutti noi, nella vita quotidiana: quando siamo assorti nella lettura di un buon libro oppure quando guardiamo un programma interessante alla tv».

Dottor Sirigu, da chi ha imparato tutto questo?

«Sono arrivato a questa tecnica nel tempo. Da medico non riuscivo a capire come mai alcune patologie avessero prognosi così diverse, nonostante la letteratura e l’esperienza dicessero che, per quelle malattie, ci fosse un certo tipo di prognosi. Mi sono chiesto: che cos’è che fa cambiare l’evoluzione di una malattia importante? Risposta: la personalità del paziente».

Parliamo di patologie gravi?

«Sì, croniche e persino tumori. Ho capito che variava il rapporto che il paziente aveva con se stesso e la sua malattia. Non solo: le persone che reagivano meglio alla malattia erano quelle che riuscivano a inglobarla, ad attraversarla anche per mezzo di un credo religioso o comunque di un certo tipo di spiritualità. In pratica, davano un significato e una valenza morale alla malattia. Allora ho intuito che si poteva modificare lo stato d’animo dei pazienti attraverso l’unica cosa che è avvalorata da un punto di vista medico: la psicoterapia, ma ancor di più l’ipnosi».

Che cosa accade con questa tecnica?

«Posso modificare lo stato mentale del paziente, dunque anche quello biologico. Un’emozione può modificare il nostro corpo: il cuore batte più velocemente, aumenta la sudorazione, abbiamo un pallore piuttosto che rossore. La comunicazione tra atteggiamento mentale, stati d’animo e attività biologica è davvero evidente, di solito in senso negativo: pensiamo alla cosiddetta somatizzazione di un lutto, della fatica, di un problema importante, del dolore, dell’ansia. La risposta del corpo è negativa, si può arrivare anche a conseguenze estreme. Ma se siamo consapevoli di questo, possiamo esserlo anche dell’esatto contrario. Se sono in grado di sviluppare uno stato d’animo di benessere, di serenità o un momento di felicità, che ripercussioni ha questo sul corpo? Ce le ha perché i nostri pensieri non sono astratti, sono molecole chimiche che ci permettono di modificare anche l’attività del corpo, per esempio l’attività cardiocircolatoria e quella intestinale, sino al controllo del dolore».

L’applicazione dell’ipnoterapia clinica è ristretta a un campo specifico?

«No, è molto flessibile: si va dalle situazioni classiche (modulare un dolore, l’ansia, lo stress o una fobia) sino ad arrivare agli interventi, ai trapianti di fegato o a piccole biopsie epatiche o renali. La utilizzo molto nei casi di pazienti claustrofobici che devono fare la risonanza magnetica. Sia chiaro: in sala operatoria non ci sostituiamo all’anestesia, bensì abbiniamo le due cose. Il paziente viene preparato con una seduta di ipnosi il giorno precedente l’intervento. Induciamo uno stato di grande rilassamento. A quel punto l’anestesia viene fatta in maniera più agevole. In questi casi ci interessa migliorare il controllo del dolore e l’evoluzione del decorso post operatorio. In occasione di un trapianto di fegato durato 13 ore, è stata utilizzata una quantità di farmaci significativamente inferiore a quella tradizionale».

Lei è andato oltre, introducendo una pratica innovativa.

«Abbiamo messo su un’altra branca dell’ipnosi, associata all’ecografia. Ne sono orgoglioso perché è un progetto che sto sperimentando sia come ecografista che come medico ipnologo. In Italia non lo fa nessun altro, al momento. Il nostro lavoro si basa sul concetto di immagine impiegato in radiologia dal punto di vista diagnostico. Ma da ipnologo utilizzo le immagini sotto il profilo terapeutico: l’ipnosi non è altro che la realizzazione di immagini mentali. Se le abbiniamo alle immagini reali di un organo o un corpo ammalato, crea una sintesi importante dal punto di vista della cura».

Il paziente segue la sua ecografia dal monitor?

«Sì, vede i propri organi. E, in uno stato mentale modificato dall’ipnosi, riesce a “entrare” in quegli organi. Praticamente fa un viaggio dentro se stesso. È il concetto di identità corporea, molto importante in neuroscienze. Come vede un paziente il proprio organo malato? Qual è l’immagine corporea di un fegato cirrotico, di un rene malandato o di un pancreas che non funziona? I pazienti che soffrono di colon irritabile o del Morbo di Crohn, odiano il proprio intestino, non vogliono neppure sentirne parlare. Ecco, bisogna indurre il paziente a riprendere il contatto con il proprio organo ammalato per risentirlo come proprio. Vale anche per le neoplasie. Non basta la sola volontà, altrimenti nessuno si ammalerebbe».

È stata una scommessa vincente: sua e dell’ospedale.

«Sì, e di questo sono grato alla direzione sanitaria per la fiducia che hanno riposto in me».

Che cosa le dicono i suoi pazienti?

«Di solito mi dicono di sentirsi sollevati, sereni, di provare una sorta di affetto per l’organo ammalato. I risultati sono estremamente buoni. E siccome l’appetito vien mangiando, abbiamo pensato ai trapiantati. Si sottovaluta che questi pazienti hanno ricevuto organi donati da persone decedute. Non è facile accettare questa condizione. A volte il paziente non riesce a capire dove finisce lui e dove inizia il donatore, si sente in vita grazie a una morte. L’ho capito nella mia pratica clinica, ma è ben raccontato nel libro “L’intruso” dell’illustre filosofo francese Jean-Luc Nancy: si capisce l’universo delle problematiche di un trapiantato. Vi assicuro che non sono sensazioni astratte».

24 Marzo 2025

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